Il caso Srebrenica – Riflessioni di tutela internazionale dei diritti dell’uomo

I Balcani tradizionalmente sono sempre stati considerati uno spazio etnico interculturale, espressione di una pacifica convivenza in una prima fase storica a cui, però, sul finire del secolo successe una situazione di rivalità culturale fra le varie società con il risultato che ci si trovò di fronte a varie culture che identificavano gli stessi come uno spazio interculturale ove però moderati, nazionalisti e socialisti convivevano. Nel primo ‘800 un conflitto legato alla spartizione delle terre si trasformò in un calderone di esegesi di un movimento indipendentista che riuscì ad affermare l’autonomia di un primo principato serbo a sud del Danubio, primo nucleo della idea jugoslava in Serbia e che sarà considerata, dagli opposti nazionalismi, come il fondamento della politica “grande serba” incoraggiando le spinte serbe verso la “liberazione” dei popoli “fratelli slavi”. In tale scenario si inculca la popolarità di personaggi che esaltavano concetti quali l’onore, l’eroismo, il senso di sacrificio, la dedizione al popolo, in una sorta di mito risorgimentale di grande impatto emotivo sul cosiddetto “ciclo epico del Kosovo”. La questione degli assetti regionali postbellici balcanici fu al centro di tutte le preoccupazioni interne ed internazionali, nel corso del secondo conflitto mondiale come anche di tutto il periodo post-bellico. Nel 1981 cominciano, infatti, ad aversi una serie di proteste nella regione del Kosovo, proteste che appoggiavano l’idea di una trasformazione dello stesso in repubblica, anche se molti non nascondevano le proprie simpatie per la costituzione di una “Grande Albania” attraverso la modifica dei confini internazionali e l’unificazione degli stessi. Si era, pertanto, rinnovato un conflitto che avrebbe innescato ripercussioni gravissime per la sopravvivenza stessa della Jugoslavia. Il nazionalismo in Kosovo, accompagnato da vari fattori sociali connessi al peggioramento delle condizioni economiche della regione, comportò la fine dell’egemonia di serbi e montenegrini nell’area in parte anche a causa delle modifiche costituzionali avutesi nel periodo 1968-1974. Lo scoprirsi da parte di serbi e montenegrini in Kosovo anche minoranza per motivi demografici ebbe la conseguenza che l’egemonia da loro esercitata, fino a quel momento nel governo della regione, andò scemando parimente al fatto che lo scoprirsi minoranza, in un’area ritenuta la culla della cultura serba ed ortodossa, costituì un vero shock a fronte anche dell’aumento della componente etnica albanese nella regione. Il risentimento serbo si rivolse anche contro le istituzioni federali, alimentando le paure connesse al fato che la Serbia fosse stata posta dall’ordinamento costituzionale in una condizione di inferiorità rispetto alle altre cinque repubbliche della zona. Per timore di affrontare una fase di liberalizzazione democratica si rinunciò ad intervenire sulle ragione politico-culturali della convivenza inter etnica mentre il peggioramento della crisi generale del paese rese vane le speranze del rilancio economico. In tale quadro la cosiddetta “pulizia etnica” ha potuto consolidarsi come un vero e proprio valore nella mente dei serbi. Convivenza e conflitto, quindi, sono sempre stati i due poli entro cui si dibattevano le vicende dei popoli jugoslavi e di quelli balcanici anche se è sbagliato considerare la storia di questa regione un mero prodotto di odi e guerre civili, impossibili da scindere gli uni dagli altri. Gli affari del Kosovo, intrecciando nazionalismi e federalismi, integrazioni e contrapposizioni, rappresentano, però, una vera fucina di riflessione sulla tutela internazionale dei diritti dell’uomo, alla luce anche del concetto di pulizia etnica. I contrasti tra le repubbliche jugoslave giungono ad un punto di non ritorno nel 1991 con un clima di muro contro muro che sfocia in ripetute secessioni ed in una lunga guerra di fronte alla quale i governi dell’Europa e del resto del mondo esibiscono una colpevole impotenza, impotenza che terminerà la sua corsa nel precipizio di tanti fatti tra cui quello di Srebrenica. Srebrenica era una città, ed un comune, nella parte orientale della Bosnia-Erzegovina appartenente alla entità della repubblica serba di Bosnia-Erzegovina. Verso la fine della guerra in Bosnia, nel luglio 1995, Srebrenica è stato il teatro del peggior massacro di civili bosniaci da parte delle truppe paramilitari serbo-bosniache del generale Ratko Mladic. Nonostante ciò gli accordi di Dayton hanno lasciato la città nel territorio della repubblica serba anche se negli anni numerose risoluzioni di indipendenza si sono registrate. Il massacro di Srebrenica è stato qualificato al livello di diritto internazionale come vero e proprio “crimine di genocidio” ed inquadrato nella macro categoria di “crimine di guerra” essendo consistito nel massacro di migliaia di musulmani bosniaci ad opera, appunto, di truppe cristiane serbo-bosniache. La città di Srebrenica allora risultava essere zona protetta sotto la tutela delle Nazioni Unite. Secondo fonti ufficiali le vittime del massacro furono circa 7.800 anche se alcune associazioni per gli scomparsi e le famiglie delle vittime afferirono che furono oltre 10.000. Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, istituito presso le Nazioni Unite, ha accusato, alla luce dei fatti di Srebrenica, il generale Mladic ed altri ufficiali serbi di diversi crimini di guerra tra cui, appunto, il genocidio, la persecuzione e la deportazione. I fatti di Srebrenica sono stati considerati come il peggior crimine compiuto in Europa dopo il secondo conflitto mondiale e la vicenda dal punto di vista della giustizia internazionale certamente può essere oggetto di ampia riflessione sulla tematica della tutela internazionale dei diritti dell’uomo. La vicenda di Srebrenica, come visto, si colloca nel contesto più ampio del conflitto in Bosnia Erzegovina durante le guerre jugoslave degli anni 90’ quando il 6 maggio 1993 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la risoluzione numero 824, aveva istituito delle zone protette, quali ad esempio la città di Sarajevo e quella di Srebrenica e con la risoluzione numero 836 si dichiarava che gli aiuti umanitari e la difesa delle zone protette sarebbero stati da garantire “anche all’occorrenza con l’uso della forza” utilizzando i caschi blu Onu. Srebrenica era, quindi, una zona demilitarizzata sotto controllo dell’ONU con una popolazione civile bosniaca quasi completamente musulmana. La Serbia, ad oggi, è accusata di non aver aiutato il tribunale per la ex Jugoslavia a svolgere il suo ruolo. Sebbene l’attacco serbo su Srebrenica sia stato classificato come una “azione militare di rappresaglia” per molti quei fatti risultano essere basati ed originati da una strategia di sterminio della popolazione bosniaco musulmana pianificata e perpetrata dalle truppe e dai paramilitari serbo-bosniaci. In tale quadro di riferimento il non intervento dell’ONU è stato per molti un esempio di una violazione della tutela internazionale dei diritti dell’uomo dovuta alla mancata presa di posizione delle istituzioni internazionali. La tesi su cui per tanto tempo si è basato il non intervento dell’ONU è stata la minaccia che le forze armate serbe avrebbero attaccato i caschi blu dell’ONU arrecando gravi perdite ma in definitiva, ad oggi, per molti i veri responsabili della violenza sono stati i politici ed i militari in servizio all’ONU tanto che il governo olandese ordinò un’inchiesta per stabilire il grado di responsabilità delle proprie truppe, che all’epoca dei fatti si trovavano a presidio della città. La sentenza del TPI sui fatti nel marzo 2007 ha affermato in maniera molto laconica che essendo la responsabilità sempre individuale ogni singolo imputato è personalmente responsabile del fatto di cui è accusato. Ciò, però, altro non ha fatto che ingenerare sfiducia nelle istituzioni internazionali accusate di non avere posto in essere un efficace intervento se non per impedire i fatti di Srebrenica almeno per incoraggiarli. Unica certezza, però, in tale quadro è che il Tribunale Penale Internazionale ha qualificato con sentenza il massacro di Srebrenica come crimine genocidio. Tuttavia, nella pratica, ad oggi si è parlato, purtroppo, solo di responsabilità morale per quanto accaduto con un inevitabile riflessione sul fatto che il gap istituzionale internazionale ha fatto venire meno la possibilità di riconciliazione nei territori della ex Jugoslavia. Il Tribunale Penale Internazionale per la Jugoslavia è nato dalla risoluzione numero 827 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed è stato, come detto, il primo tribunale ad avere giudicato crimini di guerra in Europa dalla seconda guerra mondiale. E’ stato creato dalle Nazioni Unite, paradossalmente, per rispondere a violazioni del diritto internazionale umanitario, commesse nel territorio della ex Jugoslavia, a causa proprio di una risoluzione poco chiara emessa sempre dalle Nazioni Unite. Nel caso di Srebrenica si sono avute ben quattro sentenze ad opera del TPI che, sicuramente, hanno analizzato il crimine di genocidio ma che hanno sottaciuto le responsabilità politiche e militari delle Nazioni Unite e delle loro “zone di sicurezza” realizzate a seguito di risoluzioni che autorizzavano l’uso della forza ma senza delimitare bene i contorni della loro applicazione pratica. Il fallimento della zona di sicurezza di Srebrenica, infatti, agli occhi della comunità internazionale è apparsa come un momento di incapacità di agire in maniera decisiva durante gli eventi anche se le conseguenze sono state il lancio di un’operazione militare concentrata per porre fine alla guerra. Resta il fatto che gli abitanti dell’enclave confidavano nel fatto che l’autorità dell’ONU e dei suoi caschi blu assicurasse loro salvezza e protezione quando, invece, le scelte politiche hanno optato per delle decisioni che volevano evitare l’idea che l’ONU fosse entrato in guerra contro i serbo bosniaci, in quanto ciò avrebbe messo in pericolo le truppe sul campo la cui sicurezza era di importanza fondamentale come previsto dal mandato il quale, in prima battuta, non prevedeva ancora il ricorso all’uso della forza come mezzo per scoraggiare gli attacchi. Il dispiegamento delle forze di pace d’altronde non ha costituito una risposta coerente là dove non esisteva né un accordo di pace né un cessate il fuoco effettivo e né una volontà di pace ideale per le parti belligeranti. Il concetto di “area protetta”, quindi, non ha mai rappresentato una nozione ben definita e la risoluzione numero 819 del Consiglio di Sicurezza prevedeva una sorta di “safe area” che dovesse essere creata in accordo con le parti belligeranti e che dovesse essere smilitarizzata. La presenza di truppe Onu avrebbe dovuto scoraggiare ogni offensiva diretta contro la popolazione civile dell’area ma durante la guerra nessuna di queste condizioni è stata rispettata ed a ciò si aggiunsero anche le successive lacune decisionali della politica. Gli olandesi sono stati inviati in una missione con un mandato poco chiaro, in una zona denominata area protetta sebbene questo concetto non fosse ben definito e soprattutto in una missione di pace là dove non vi era una situazione di pace. Il mandato dell’ONU non prevedeva la difesa militare dell’enclave, infatti, ma, paradossalmente, non escludeva nemmeno esplicitamente la reazione armata, autorizzandola come ultima risorsa per l’autodifesa. A ciò, come visto, si aggiunse anche la contrarietà all’intervento aereo poiché l’ONU voleva rimanere imparziale nel conflitto, limitando il suo mandato ad una missione di mantenimento della pace. Lo stesso segretario generale dell’ONU, successivamente, alla luce di come andarono le cose, ammetterà il fallimento delle Nazioni Unite proprio per aver compreso troppo tardi ciò che stava accadendo ed avere impegnato i propri uomini in una missione per la quale non erano preparati e che le considerazioni sul campo avrebbero richiesto essere specifiche e definite anche al fine di rafforzare il processo di riconciliazione per cui l’organizzazione internazionale era stata costituita. La condanna per il genocidio perpetrato, certamente, è da considerarsi di grande importanza per la giustizia internazionale ma il caso Srebrenica ha rappresentato e rimane un grande gap nella tutela internazionale dei diritti dell’uomo. Rimane, quindi, l’amara considerazione che il Tribunale Penale Internazionale sia stato un grande passo avanti nella tutela internazionale dei diritti dell’uomo, tutela che paradossalmente non è stata garantita proprio dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, circostanza questa espressione nitida dei paradossi del rapporto tra organizzazioni internazionali e tutela dei diritti umani. Dal punto di vista, invece, della cronologia processuale va ricordato che l’articolo 105 della Carta delle Nazioni Unite è stato applicato dalla Corte Distrettuale dell’Aja alla diversa questione del diritto al risarcimento chiesto dai parenti delle vittime del genocidio ai Paesi Bassi ed alle Nazioni Unite per non avere impedito che il massacro si verificasse nella sentenza del 10.07.2008 nel caso, proprio, delle madri di Srebrenica, sentenza confermata dalla Corte d’Appello dell’Aja il 30.10.2010 e dalla Corte Suprema il 13 aprile 2012, laddove la Corte ha affermato che l’immunità, a favore delle Nazioni Unite, prevista dall’art. 105 della carta, è assoluta per gli atti che rientrano nelle funzioni dell’organizzazione, come sono quelli esecutivi di operazioni di peacekeeping. In quella occasione la Corte dell’Aja si è rifiutata di sindacare se gli atti omissivi attribuiti dai ricorrenti alle Nazioni Unite fossero necessari ai fini dell’immunità sostenendo che il farlo avrebbe enormi conseguenze sul potere decisionale del Consiglio di Sicurezza su missioni di peacekeeping analoghe. La Corte Suprema, poi, nella sua sentenza del 2012, ha osservato che in base alla carta ed alla convenzione sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite del 1946, l’ONU gode di immunità dalla giurisdizione nel senso che essa non può essere convenuta in giudizio dinanzi ad un tribunale interno negli stati che sono parti della convenzione con una immunità assoluta. L’immunità è, infatti, diretta ad assicurare che l’ONU possa funzionare in modo completamente indipendente e serva, quindi, ad un legittimo scopo. L’immunità è, comunque, diversa da quella sottostante all’immunità giurisdizionale degli stati stranieri, la quale deriva dal diritto internazionale e si applica solo agli atti di uno stato straniero compiuti in veste governativa. Non c’è motivo, poi, di ritenere che la Corte Europea dei Diritti Umani riferendosi alle organizzazioni internazionali, per ammettere la dottrina della protezione equivalente, si sia riferita anche alle Nazioni Unite ma non alle “attività” delle Nazioni Unite condotte nel contesto della carta. Nel caso però di accusa grave, quale ad esempio genocidio, tutto ciò è irrilevante e vale anche per le Nazioni Unite secondo la Corte Internazionale di Giustizia. Tale circostanza fu affermata nella sentenza sulle immunità giurisdizionali dello stato nel senso che neanche quando uno stato è accusato della violazione dello jus cogens l’immunità può essere negata. In una sentenza del 2014, infatti, proprio la Corte Distrettuale dell’Aja ha confermato l’immunità delle Nazioni Unite condannando i Paesi Bassi. Sul caso si era già pronunciata nel 2013 la Corte Europea dei Diritti Umani secondo cui il riconoscimento dell’immunità giurisdizionale dell’ONU non viola il diritto di accesso al giudice sancito dalla Convenzione Europea perseguendo in modo proporzionato uno scopo legittimo. La Corte ha precisato, allora, che in senso opposto non può essere invocata né la natura cogente del divieto di genocidio né l’assenza di rimedi alternativi, richiamando la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sulle immunità giurisdizionali dello stato del 2012 ed il carattere non assoluto del principio della protezione per equivalente anche se l’immunità, comunque, non escludeva che il risarcimento potesse avvenire anche per via stragiudiziale. D’altronde l’articolo 6 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale definisce il crimine di genocidio e proprio su tale base il Tribunale Penale Internazionale, reputato il principale organo giurisdizionale dell’Onu, ha accusato Mladic ed altri ufficiali serbi di diversi crimini di guerra perché il fatto è stato riconosciuto tale proprio perché l’azione commessa venne condotta con l’intento di distruggere la comunità musulmana della Bosnia Erzegovina e, di conseguenza, si trattò di genocidio commesso dai serbo bosniaci. Certo, come visto, la Serbia non fu riconosciuta responsabile di genocidio perché non vi furono prove certe di un ordine inviato esplicitamente da Belgrado e né di complicità perché non vi furono prove  che l’intenzione di commettere atto di genocidio fosse stata portata all’attenzione delle autorità di Belgrado anche se venne riconosciuto che Radovan Karadzic e Ratko Mladic dipendessero da Belgrado, che forniva assistenza finanziaria e militare ed esercitava una influenza sul leader politico serbo-bosniaco e sul capo militare. In sintesi, quindi, nella pronuncia del 2007 venne stabilito che sebbene vi fosse un serio rischio di massacro la Serbia non avrebbe fatto nulla per rispettare i suoi obblighi di prevenire e punire il genocidio, non cooperando con il tribunale che ha incriminato i responsabili ma anzi essendo stata la sede della latitanza di molti dei colpevoli del fatto. La questione della sentenza del marzo 2007 è una questione molto complessa proprio perché alla fine è stato il singolo soggetto fisico a dovere affrontare la sentenza di colpevolezza ma per quanto clamore e scalpore la cosa possa aver fatto però sebbene l’accusa possa anche aver potuto considerare se i fatti siano stati commessi in concorso con altri ed in un unico disegno criminoso (e durante il processo questi fatti sono analizzati per arrivare a definirne il livello) non si è trattato, processualmente parlando, di un principio nuovo o sconvolgente in sé ma semplicemente dell’applicazione dei normali concetti di giustizia penale estesi alla giustizia internazionale. Certo la questione si è complicata perché la sentenza non è stata pronunciata dal Tribunale per i crimini nella ex-Jugoslavia, che era un tribunale ad hoc istituito per giudicare questa categoria di crimini, ma dalla Corte Internazionale di Giustizia, un tribunale permanente al quale si rivolgono solamente gli stati che ne hanno sottoscritto la convenzione per dirimere le loro controversie. Su questo piano di analisi, però, attraverso le sentenze di questo organo internazionale è, invece, possibile parlare di responsabilità da parte degli stati, benché gli elementi per determinarla siano sempre molto difficili da acquisire. La sentenza emessa riguardava appunto il ricorso presentato dalla Bosnia Erzegovina contro la Serbia, accusata di aver violato la Convenzione sulla Repressione e Punizione del Crimine di Genocidio e quindi si è potuta esprimere solo sulla diretta responsabilità serba. Di fatto la Corte non ha potuto negare l’esistenza di legami tra gli esecutori del massacro e la Serbia ma ne ha decretato l’assoluzione per insufficienza di prove. Se la sentenza del 2007 è stata oggetto di perplessità da parte dei commentatori proprio perché l’ultima di quattro sentenze di processi svoltisi all’Aja dal 1999 al 2007 ed il cui contenuto ha lasciato molti insoddisfatti la verità è che la vera perplessità si dovrebbe spostare semmai sugli accordi di Dayton che oltre ad acquisire uno stato di fatto territoriale, che si fondava sull’avvenuta pulizia etnica, creavano un’entità non statuale che prima si era però comportata da stato. Il pericolo a cui si potrebbe andare incontro alla fine è quello di vedere indebolito e delegittimato l’organo di giustizia internazionale al pari di quanto non sia avvenuto con il Consiglio di Sicurezza per le proprie risoluzioni. Ingenerare sfiducia, per creare un clima di delusione, o stravolgere la lettura di un documento a proprio favore, per evitare di affrontare seriamente il discorso della riforma degli organi internazionali, diventano, quindi, facce opposte di una stessa moneta che nessuno vorrebbe più veder circolare specie perché, come visto, si è approdati ad una semplice “responsabilità morale” per alcuni che, certamente, non ha creato le condizioni per il processo di riconciliazione con le risoluzioni ONU private del loro significato e diventate, in definitiva, mere dichiarazioni di principio che interpretate in maniera ristretta sono state complici della violazione dei diritti umani proprio in una zona di sicurezza. Al pari del fallimento avutosi quando con la risoluzione numero 844 si autorizzavano i caschi blu all’uso della forza per proteggere le enclave musulmane nella pratica altro fallimento è stato l’avere inviati nella zona meno uomini rispetto a quanto fosse necessario e con un equipaggiamento assai deficitario per affrontare il compito per cui erano stati destinati con la Nato che in base alla risoluzione numero 836 poteva intervenire solo su richiesta del Segretario Generale ONU, il tutto in una zona caratterizzata ancora da uno scenario di guerra. Alla luce di quanto visto, certamente, la giustizia rappresenta un elemento fondamentale all’interno dei processi di riconciliazione ma è evidente che non può affrontare tutto da sola e soprattutto senza una riforma istituzionale internazionale. Certo la condanna di Krasic per complicità in genocidio è da considerarsi di grande importanza per la giustizia internazionale, perché ha provato il primo caso di genocidio sul suolo europeo dai processi di Norimberga tuttavia il fatto che il tribunale possa giudicare esclusivamente persone fisiche, e che si sia concentrato sui maggiori responsabili politici e militari, dimostra come il TPI non sia stato adeguato al raggiungimento degli obiettivi che si era proposto poiché questi risultavano sproporzionati rispetto al suo raggio di azione. Il massacro di Srebrenica, in definitiva, ha dimostrato l’idea che il TPI come deterrente dei crimini di guerra si è rivelato un tentativo fallito da parte della comunità internazionale di sostituire alla propria mancanza di iniziativa una minaccia di giustizia, designando un tribunale come strumento simbolico ma di scarsa utilità pratica in questo senso anche se è stato l’unica istituzione ad aver portato un minimo di giustizia sul territorio e nella storia.

BIBLIOGRAFIA E TESTI RIFERIMENTO:

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CONFORTI E FOCARELLI, LE NAZIONI UNITE, WOLTERS KLUWER ITALIA, CEDAM EDITORE, 2017

BONAPACE, WILLIAM E PERINO, MARIA, SREBRENICA, FINE SECOLO. NAZIOANLISMI, INTERVENTO INTERNAZIONALE, SOCIETÀ CIVILE, JOKER EDITORE 2005

DAVIDE DE FILIPPI, IL CASO SREBRENICA, INTERVENTO ASSOCIAZIONE CASCHI BLU ITALIANI, ROMA, 2007

VALENTINA TOSI, IL CASO SREBRENICA 1995 – 2005, UNIVERSITÀ STUDI TRIESTE, 2005

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