Il nuovo bicameralismo imperfetto alla luce del taglio dei parlamentari

Il recente provvedimento di diminuzione del numero dei parlamentari ha avuto un forte impatto negativo sul sistema bicamerale nazionale al punto fa fare ipotizzare una riforma del sistema in favore della nascita di un’unica assemblea parlamentare. Da più parti costituire un’unica assemblea parlamentare, di 600 eletti, è parsa la soluzione più giusta e necessaria per l’evoluzione del sistema giuridico e politico attualmente in vigore, alla luce del recente taglio dei parlamentari ed in funzione anche del progressivo allargamento della base di sostegno della nostra democrazia repubblicana. Superare il bicameralismo, oggi, viene considerata la giusta soluzione dopo il taglio del numero dei seggi alla camera ed al senato, taglio deliberato con la revisione costituzionale e confermato da un referendum popolare che ha generato conseguenze in contrasto con diverse previsioni della costituzione. Ormai palese ed improcrastinabile risulta, quindi, la necessità di una revisione del collegio dei parlamentari e dei delegati regionali che elegge il presidente della repubblica. In caso di inerzia, infatti, il collegio risulterebbe alterato nella sua composizione rispetto a quanto previsto dalla costituzione. L’obbligo di intervenire è dato dal fatto che la costituzione prevede una proporzione di parlamentari e delegati regionali. Il senato tagliato in parte dei suoi membri, ad oggi, non garantirebbe più la rappresentanza in parlamento di alcune province autonome e di alcune regioni con un conseguente deficit di rappresentanza. A corollario di quanto detto la circostanza che un senato di 300 membri sarebbe indotto a reperire soluzioni di assenso a provvedimenti varati dalla camera con commissioni mutilate nel numero dei loro membri. Il taglio dei parlamentari non ha, infatti, solo alterato la costituzione ma di fatto ha prodotto due camere assolutamente identiche nelle funzioni e nell’elettorato diverse solo per il numero di componenti. Ciò ha di fatto alterato il significato del bicameralismo italiano che necessiterebbe del superamento paritario del proprio sistema a favore di un parlamento monocamera proporzionato alla popolazione nel numero dei suoi membri ed ispirato ai principi di rappresentanza, efficienza, efficacia tipici delle democrazie moderne. La proporzione tra parlamentari e delegati regionali, stabilita dalla costituzione, va riequilibrata per evitare che se aumenta il peso dei consigli regionali il parlamento in seduta comune finirebbe per diventare una sorta di camera delle regioni. Urge eliminare una alterazione che si verrebbe a creare alla luce della differenza tra la maggioranza che elegge il presidente della repubblica e quella necessaria per dare la fiducia al governo e per approvare le leggi poiché oggi assistiamo ad una alterazione del numero medio di abitanti per parlamentare. Collegi più ampi allontanano l’eletto dagli elettori, rendendo più difficile all’eletto curare il collegio a favore del potere dei vertici dei partiti ed alla luce anche della crisi delle strutture periferiche degli stessi, crisi già degna di nota in senso negativo. Nella situazione profilata va anche ulteriormente sottolineato che il fenomeno più preoccupante sarebbe quello della permanenza del cosiddetto “monocameralismo alterato”, per cui già da adesso una camera può solo ratificare ciò che è stato deciso da un’altra camera. In verità il processo di “de-differenziazione” delle assemblee parlamentari è cominciato quando si è pensato di uniformare la loro durata senza rendersi conto che la differenziazione della durata in carica degli organi costituzionali serve a ridurre le alterazioni delle attribuzioni. Alterazioni che, invece, si accentueranno. Se ciò non bastasse a rendere maturo il cammino verso il monocameralismo altro argomento da dovere tenere a riguardo sarebbe quello dell’esistenza dei parlamentari regionali che allo stato attuale, sebbene in ambito limitato, svolgono le stesse funzioni del parlamento nazionale. Se la logica della diminuzione dei parlamentari aveva l’intento di favorire sistemi di democrazia diretta, a scapito di quella rappresentativa, nella realtà la modifica introdotta ha agito nella quantità della rappresentanza catalizzando un grosso vulnus per la democrazia. Il parlamento andrebbe posto al centro del sistema normativo e di controllo con la necessità di interventi nella legislazione elettorale per modifiche che interesserebbero anche i regolamenti parlamentari per una nuova composizione dei gruppi parlamentari, delle commissioni legislative e degli organi di presidenza. Il dibattito dottrinale ha però anche visto un filone di riflessione che predilige la valorizzazione dell’impiego del parlamento in seduta comune con un ampliamento delle sue attuali competenze attraverso l’affidamento a tale organo di alcune attività di maggior rilievo quali il voto di fiducia di sfiducia, la sessione di bilancio, la conversione dei decreti legge. Tale ampliamento di definizioni, secondo gli studiosi, sarebbe oggi più praticabile proprio grazie alla ridotta composizione numerica dell’organo che si dovrebbe accompagnare con la necessaria riforma della costituzione e con una riforma dei regolamenti parlamentari orientata verso il rafforzamento delle procedure di coordinamento tra le due camere con l’utilizzazione di una struttura amministrativa servente comune. Le crisi dei parlamenti attuale mette in luce come il bicameralismo non si sia sviluppato con il fine di articolare le tradizionali funzioni parlamentari tra due organi differenziati per struttura e funzioni. Oggi, tuttavia, un bicameralismo come può intendersi il nostro, paritario delle funzioni, può conservare la sua funzione di esistere solo se le due camere restano distinte nelle strutture ai fini di una maggiore articolazione della natura rappresentativa del parlamento nel suo complesso. E’ evidente che nel corso del tempo le differenziazioni strutturali sono state progressivamente ridotte, palesando come il bicameralismo rappresenti, ormai, soltanto un rallentamento dell’esercizio delle funzioni parlamentari. La proposta di riforma costituzionale ha, quindi, una logica politica ed una logica istituzionale. La logica politica risiede nel fatto che una riluttante, ma progressiva, mobilitazione dell’anti-europeismo militante sta portando alla accentuazione del punto ideale di crisi con il bicameralismo paritario che troppo spesso decide vita e morte dei governi. La parità tra le camere dovrebbe, invece, conservare le sue ragioni per un giusto procedimento legislativo che possa continuare a mantenersi attraverso forme di bicameralismo procedurale a garanzia di un sempre possibile riesame nella confezione delle leggi. Costituzionalizzare il rapporto tra stato, regioni ed autonomie in una commissione paritaria tra parlamentari, governatori e sindaci è il meccanismo per fare funzionare un monocameralismo effettivo in grado di funzionare e decidere tempestivamente. Nel 2023 all’atto della votazione per un parlamento bicamerale quasi dimezzato, con una legge elettorale con qualche incertezza, la possibilità concretamente sul tappeto sarà quella di un monocameralismo secco che riporti tutti i parlamentari residui in una sola assemblea o di un bicameralismo asimmetrico che faccia diventare il senato di 200 membri una camera di rappresentanza delle entità locali, con prevalenza della camera bassa politica. Le autonomie regionali e locali sono le protagoniste di un problema che va affrontato per evitare il continuo trasbordare extra-istituzionale dei presidenti delle regioni. Certo occorrerebbe approvare la riforma con la maggioranza dei due terzi per evitare l’ennesima prova lacerante del referendum ma a vent’ anni dalla approvazione della riforma del titolo V non siamo ancora riusciti ad integrare la commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali ed a prevedere la necessità del voto parlamentare a maggioranza assoluta per superare eventuali voti contrari o condizionati dalla commissione integrata. Alla base di tutto, allora, vi era il timore che il voto contrario della commissione, dovendo essere superato da un voto a maggioranza assoluta di ambedue le camere, avrebbe facilmente condotto a situazioni di stallo. Il rischio che si correrebbe se le due camere diventassero una sola assemblea sarebbe che avremmo un monocameralismo effettivo con una assemblea in grado di funzionare e decidere tempestivamente, temperato dalla possibilità di chiedere un nuovo voto su un grande numero di materie, secondo un meccanismo che non costringerebbe a cercare nuove maggioranze ma solo a ponderare meglio il voto. Tuttavia nello stesso tempo avremmo reintrodotto una sede centrale in cui verificare il rapporto politico tra stato, regioni ed autonomie ed evitare conflitti proprio tra stato centrale ed autonomie locali. Urge un sistema che garantisca una forma di governo su un parlamentarismo più moderato lungo l’asse del continuum maggioranza parlamentare-governo quanto una costituzionalizzazione del sistema delle conferenze stato-regione-enti locali. La rottura del bicameralismo paritario offre una opzione monocameralista come sfida per un diverso bicameralismo che rigeneri la legittimazione di tutte le istituzioni rappresentative ed anche la loro capacità decisionale. Perdura, quindi, il problema di rappresentanza e di rappresentatività degli organi collettivi in un momento in cui si parla a parlare di ipotesi presidenziale, senza riforma costituzionale, con una ipotizzata concentrazione di ruoli istituzionali quale quella della presidenza della repubblica e del consiglio nella stessa persona. Se è pur vero che dall’inizio della seconda repubblica si è sancito un ruolo diverso del capo dello stato, per l’esigenza di ampliarne il ruolo di mediazione politica, e sebbene già nei settennati precedenti è cresciuta la funzione di supplenza attiva esercitata dal presidente della repubblica ancora oggi nel nostro ordinamento costituzionale i poteri della presidenza sfuggono ad una precisa configurazione e ciò per il futuro potrebbe fare presagire un mix di “elitismo presidenzializzato” e di “plebiscitarismo diffuso”. Appare, comunque, chiaro che sia che si parli di riforma del ruolo del presidente della repubblica sia che si parli di riforma del parlamento necessiterebbe prima una profonda riforma della costituzione come anche del concetto pratico di rappresentanza e rappresentatività popolare.