“Europa e post Europa”
Nel maggio del 1935 Edmund Husserl teneva a Vienna la prima di alcune celebri conferenze nel corso delle quali introdurrà la riflessione filosofica che sarebbe stata, poi, contenuta nel saggio “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”. Husserl andava ad affrontare i temi della storicità e del rapporto fra filosofia e sapere scientifico rivendicando la fecondità del punto di vista “fenomenologico” per potere comprendere il senso profondo della crisi della civiltà europea. In lui il rapporto fra esperienza e pensiero e fra esperienza ed idealizzazione scientifica diveniva parte, nella situazione di crisi, di una riflessione generale sulla storia che vedeva attribuire alla “ratio filosofica” un ruolo preminente, in quanto razionalità capace di ripristinare il senso di unità fra “mondo della scienza” e “mondo della vita”. Proprio nel rapporto tra storicità e mondo della vita Husserl intendeva non solo “un tipo” di conoscenza prescientifica ma proprio “il tipo” di conoscenza che stava a fondamento di tutte le altre ed a cui si poteva pervenire solo per intuizione. Husserl esponeva la necessità di recuperare il senso più autentico della disciplina filosofica in opposizione al rigido obiettivismo sempre più perseverante nelle scienze “dei meri fatti” che, astratte dai soggetti, non potevano che creare i cosiddetti “meri uomini di fatto”. Partendo dalla riflessione in merito alla necessità di dare risposta al problema della ricostruzione di un quadro ideologico crollato sotto i colpi della tragedia della Grande Guerra, e del successivo avvento dei totalitarismi occidentali ed orientali, la sua riflessione filosofica scorgeva il dramma di un’epoca nella circostanza per cui gli uomini si trovavano di fronte al grave pericolo di soccombere in quello che lui definiva il “diluvio scettico”. Di fronte a tale scenario il filosofo presentava allo stesso una reazione vigorosa proprio riguardo al conseguente fenomeno, insito in esso, del cedimento della società e della cultura europea. Ricostruendo una sorta di continuità finalisticamente orientata attraverso i nodi cruciali dello sviluppo della filosofia europea l’autore riprendeva il tecnicismo terminologico della tradizione filosofica per ritrovare i problemi nella forma più diretta ed immediata che si richiamava alla più pura e semplice “capacità di giudicare”. La crisi delle scienze europee, in tal senso, ricongiungendo crisi, esperienza e giudizio assumerà come nucleo il problema dell’origine in una speculazione filosofica ove la problematica messa in gioco non riguardava soltanto l’orizzonte filosofico ma co-implicava il rapporto della filosofia con la scienza, la cultura in generale e la civiltà. Husserl presenta una istanza, mediante il concetto di crisi, di riconduzione del senso della scienza ai valori della vita e dell’esistenza umana. Tale istanza vede i valori della vita ripensati e reinterpretati tramite il concetto di “metodo fenomenologico” partendo dall’assunto di partenza per cui ogni formazione concettuale, ed in particolare quei concetti che hanno una particolare rilevanza di principio all’interno dell’elaborazione scientifica e logica, hanno origine nell’esperienza quotidiana e concreta della realtà. Il tema della crisi e del suo possibile superamento assume, però, in Husserl anche una forte accentuazione etica che ritrova la sua esegesi nella riflessione sulla considerazione per cui nello sviluppo delle scienze si mostrano successi crescenti sia sul piano dell’acquisizione di conoscenze teoriche che su quello delle applicazioni pratiche. Nelle scienze, infatti, secondo Husserl, vi sono da sempre continue “crisi” ma le stesse sono da intendere solo nel senso di grandi e proficui mutamenti di punti di vista e di rivolgimenti teorici che hanno da sempre messo in questione il quadro teorico conoscitivo del passato. Se fuori discussione, però, è il progresso e la scientificità delle scienze al pari indiscutibile risulta essere per lui il contrasto tra la “scientificità delle scienze” e la “non scientificità della filosofia”. Assunto questo corroborato dalla circostanza che si è dimostrata insostenibile proprio l’antica pretesa della filosofia di essere la “regina delle scienze” in quanto organizzatrice e sistematizzatrice dal punto di vista superiore dei risultati delle scienze. Per Husserl si parla di crisi partendo dal fatto che vi è un altro senso della scienza in rapporto al quale è possibile parlare di crisi, riferendo la stessa al tempo presente mediante una nuova metodologia che prescrive il disporsi in un punto di vista esterno al fine di tentare di cogliere il nesso che colleghi la scienza, nella sua forma attuale degli orientamenti intellettuali che essa suggerisce, con la cultura, nel suo insieme, in una relazione tra la scienza e la forma stessa della nostra esistenza con la filosofia che faccia da arbitro trasmettendo, in tal modo, una “immagine della scienza nella cultura”. Così facendo la scienza conferisce la propria impronta alla cultura finendo con l’incidere profondamente nelle forme della nostra esistenza. In questo senso, pertanto, la crisi di cui parla Husserl investe direttamente il nostro essere quotidiano in una prospettiva che coinvolge sia la filosofia che la realtà sociale, comportando una perdita del controllo delle cose ed una difficoltà di plasmare la realtà secondo gli obiettivi che noi vorremmo perseguire in essa. Focalizzando l’immagine che essa fornisce della realtà si presenta uno scenario in cui troviamo trascritta, in termini teorici, proprio la situazione di crisi. Bisognerebbe, quindi, eliminare dalla storia, per quanto possibile, la componente soggettiva anche se questa forma di obiettivizzazione non risulta essere, in ultima istanza, qualcosa di intrinseco all’operare della scienza, in quanto è un’immagine della realtà estratta da un modo di concepire la scienza che ratifica il nostro vivere in una crisi esistenziale, di cui la stessa scienza è proprio la ragione più profonda. Assistiamo, quindi, per Husserl, ad una riconduzione della crisi esistenziale, intesa come condizione sociale di un’epoca intera, ad una crisi della filosofia e della scienza, quest’ultima considerata come il motivo che sta alla radice della crisi. In questo quadro teorico di riferimento, anni dopo, si inserirà la riflessione dell’allievo migliore di Husserl, che formatosi alla sua scuola fenomenologica affinerà la riflessione del suo maestro applicandola ad una riflessione filosofica sul concetto di “Europa” ma anche di “post Europa”. Il tutto avverrà proprio partendo dall’analisi della problematica teoretica e spirituale focalizzata sulla crisi del concetto di Europa. Crisi che esplosa, anche per lui, con potenza deflagrante con il primo conflitto mondiale ed il successivo avvento dei totalitarismi, proseguirà con l’avvento della guerra fredda fino a culminare, in definitiva, nel crollo del comunismo sovietico. Jan Patocka ci invita a riflettere sul concetto di Europa sulla scia della crisi delle scienze europee preannunciata da Husserl ma giungendo ad identificare proprio nella scoperta dell’universale il tratto distintivo della situazione occidentale di crisi. Patocka nel suo ragionamento su “Europa e post Europa” elencherà tutte le problematiche concernenti il ruolo storico dell’Europa a partire dal suo sostanziale predominio sulle altre tradizioni e culture unitamente anche, però, alla indicazione delle grandi ragioni che hanno portato al suo tramonto del ruolo di guida, proprio grazie alle potenzialità tecniche messe a disposizione della cultura occidentale. Per Patocka la coscienza dell’Europa deve essere sviluppata sulla base dell’acquisizione della concezione della “cura dell’anima” dalla cui centralità emerge la valenza profondamente etica del pensiero dell’autore, in un concetto di cura dell’anima declinato come fattore che necessita di una estensione alla totalità dell’essere umano, con una “conoscenza di se” che riguardi anche, e soprattutto, lo Stato in un contesto in cui l’uomo è stato reso, ormai, superfluo, dalla tecnologia ed in cui la cura dell’anima ha perduto qualunque possibile orientamento. La scienza, per Patocka, ha smarrito la possibilità di rapportarsi all’essere con la conseguenza di stare proseguendo, inesorabilmente, quella drammatica crisi di senso, enunciata già da Husserl, e che risulta sfociata nella tecnicizzazione integrale del mondo contemporaneo all’autore. Jan Patocka superando il formalismo metodologico della scienza, auspicato dal suo maestro, propone come cura per il declino dell’Europa la via della riattualizzazione della cura dell’anima, cura dell’anima intesa come veicolo per il ritrovo della identità profonda dell’Europa. Il tutto però con il monito di compiere questo percorso prima che sia troppo tardi e che le “ombre corte” di una nuova forma di “follia collettiva” raggiungano di nuovo il continente europeo. La cura dell’anima, quindi, nell’epoca europea dei problemi spirituali e del pericolo della tecnicizzazione della scienza, viene rivisitata alla luce della grande critica che la filosofia ha rivolto alla contemporaneità sia per ciò che concerne il mercato che per ciò che concerne la tecnica. In ciò Patocka si inquadra perfettamente come il “figlio martire” della rottura del quadro europeo, rottura basata su un concetto di scienza intesa come “concezione fenomenologica del mondo” che deve rivolgere il proprio interesse allo studio di ciò “che si manifesta” ritornando, proprio seguendo gli assunti di Husserl, all’essenza ultima delle cose troppo spesso non colta più nel proprio senso ultimo. E proprio su questo punto Patocka rivolge una prima critica al suo maestro il quale non riesce, a suo dire, a cogliere il problema della “scienza interna”, problema che comporta che la scienza viene, ormai, troppo spesso intesa come strumento di modificazione della realtà umana e della vita individuale. Patocka teorizza un concetto di post Europa più severo rispetto a quello teorizzato dal proprio maestro, con il riconoscimento della parziale soluzione al problema dato dal semplice spirito di ritorno alle cose, come formula salvifica per il concetto stesso di Europa. Per Patocka il concetto di crisi è inteso come “crisi del mondo della vita”, crisi in cui i totalitarismi si sono inseriti ambendo alla riduzione dell’uomo a materia disponibile grazie anche al modello imposto dall’esperienza della prima guerra mondiale, con la separazione della relazione tra immanenza e trascendenza. L’Europa per Patocka esiste con una dimensione che è rappresentata dal proprio sapere, sapere che è inteso come scienza non più come “comprensione filosofica” ma come vera e propria “attitudine scientifica”. La filosofia, in questo quadro, non può più essere una mera osservazione della natura ma deve necessariamente diventare una pura osservazione dell’uomo. La crisi delle scienze europee nella visione di Patocka, come proseguimento e completamento dell’elaborazione di Husserl, nasce, quindi, con la involuzione della figura dell’uomo che da “homo faber” diviene “cosa fra le cose” perdendo il proprio carattere di valore. La post Europa è la dimensione della totale immanenza che si impone tramite il primato tecnico nella forma dello sfruttamento dell’uomo e raggiunge la propria forma finale nella sua “distruzione progressiva” culminata nella logica del campo di sterminio. Il concetto di post Europa di Patocka si potrebbe sintetizzare con l’avvento della fine della concezione dell’entità Europa come potenza storica, fine avutasi con il transito dalla trascendenza alla immanenza, dalla scienza alla tecnica. La post Europa di Jan Patocka è un progetto ontologico politico che si può concretizzare nella necessità di ritorno alla cura dell’anima intesa come punto di equilibrio del soggettivo con l’oggettivo, in una situazione ove l’uomo affina il discernimento morale e quello scientifico. La cura dell’anima, in tal senso, è metafora della “cura dell’umanità” intesa come responsabilità etica dell’uomo verso di se ma anche verso la comunità concepita nel senso di unione fra cose e persone. La cura dell’anima, quindi, intesa come rappresentazione del carattere trascendentale dell’uomo singolo ed al pari principio collettivo su cui si fonda l’Europa della “responsabilità individuale”. L’uomo di Patocka non essendo più strumento di realizzazione di un fine estrinseco, che procede per tappe, non permette più di potere parlare di un “finale storico” già definito proprio dalla stagione della post Europa. In questo suo umanesimo Patocka, a differenza di Husserl, recupera l’esperienza greca intesa come espressione della trascendenza, trascendenza quale dimensione limitativa superiore dell’umanità in una realtà caratterizzata dalla consapevolezza del posizionamento dell’uomo nel mondo legata solo al proprio status di essere mortale. Patocka, in definitiva, ed in continuazione rispetto all’opera di Husserl, sigla con la sua riflessione filosofica, il definitivo superamento dell’idea che la tecnologia possa essere uno strumento di liberazione per l’uomo, arrivando, addirittura, alla asseverazione opposta per la quale la stessa sarebbe stata strumento di degradazione per l’uomo, subordinato alla stregua di “cosa” ancora secondo logiche a lui contemporanee che, sebbene successive ai totalitarismi, risultano ancora improntate a questo fine. L’attualità del pensiero di Patocka si intravede, oggi, proprio in questa considerazione della post Europa come comunità internazionale che trova, sempre più spesso, ancora oggi, nel comune uso della tecnologia uno strumento per la mercificazione dell’essere umano, mercificazione che come ieri, rischia di riaprire le porte della storia a quei “diluvi scettici” rappresentati dai nuovi fenomeni politici populisti e totalitari.