La felicità nel tempo del Coronavirus
Cettina Laudani, catanese, è una docente di Scienze Politiche, che si è dedicata con passione, dedizione e perseveranza allo studio del pensiero politico. Ma non ha trascurato le connessioni sociologiche e intellettuali con la modernità. Nel suo passato c’è anche un periodo di impegno, nel 1985, come segretario provinciale a Catania nel movimento giovanile socialista. In quel periodo erano pochissime le donne a livello nazionale a rivestire cariche di organizzazioni tutte al maschile nel campo della ‘politica praticata’. Oggi abbiamo voluto intervistarla per parlarci della ‘felicità’ in un momento in cui ciascuno di noi è proteso e anche costretto a coglierla solo all’interno del proprio privato.
D. In che modo si intreccia il tema della felicità privata e quella pubblica che è trattato anche in modo diffuso dalla filosofia politica?
R. Il tema della felicità può sembrare inedito, post-moderno, in realtà il concetto di felicità nella storia del pensiero politico ricorre spesso, soprattutto ricorre sin dall’antichità come ‘pubblica felicità’. C’è tutta una tradizione filosofica nel ‘700, da Antonio Genovesi a Napoli, a Pietro Verri a Milano, che guarda alla pubblica felicità in economia civile, mentre, oggi, discipline come la sociologia, la psicologia, l’economia, analizzano il concetto di felicità sempre e solo in una dimensione individuale. Le ultime ricerche di Storia del pensiero politico indicano nel napoletano Gaetano Filangieri colui il quale suggerì a Jefferson di inserire nella costituzione americana il diritto alla ricerca della felicità come diritto di natura, insieme alla vita e alla libertà. Tuttavia dobbiamo ricordarci che nel Settecento la rivendicazione dei diritti umani era indirizzata ai soli uomini, e Olympe de Gouge durante la rivoluzione francese fu ghigliottinata per aver osato stilare una carte dei diritti della donna.
D. Tu sei stata una donna impegnata in politica, come studiosa di Storia delle dottrine politiche come giudichi il ruolo delle donne nella storia?
R. Premetto che io non mi sono mai occupata di Storia del pensiero politico ‘al femminile’, tuttavia penso che non esiste tout court una storia delle donne, perché le donne nella storia stanno sempre sullo sfondo, o, come dice la famosa antropologa Ida Magli, sono lo sgabello degli uomini. Esistono storie di donne al singolare, nondimeno se vogliamo cercare una storia dell’emancipazione femminile dobbiamo ‘frugare’ tra le pieghe e tra le contraddizioni della storia, a cominciare da quel sistema politico, il fascismo, la cui ideologia aveva relegato la donna ad un livello inferiore rispetto all’uomo.
D. Vuoi spiegarci meglio?
R.- Il regime fascista aveva dato grande visibilità alle donne, come sappiamo, aveva fatto della donna una fattrice di figli per la patria, aveva anche fornito le misure ideali delle sue fattezze esaltando la costituzione robusta con i fianchi larghi per accogliere meglio in grembo i figli. Tuttavia fu proprio nel corso del ventennio che, come scrive Ritanna Armeni, i modelli estetici femminili cominciano a cambiare, ed esattamente nel 1836 quando Ondina Valle, vinse le olimpiade. Quella giovane atleta dal fisico slanciato, un po’ androgina si impose subito come modello estetico anche su quelle ragazze innamorate del loro duce, e del regime. La donna da quel momento comincia a pensarsi e ad identificarsi con qualcosa di diverso, con qualcosa che non le era imposto ed impara a leggersi dentro, a costruirsi una propria interiorità; non a caso proprio in quegli anni, nonostante gli incentivi economici per sostenere le nascite, il regime registra un calo della natalità quasi del 5%. Questa verità, oggi accettata da tutti ma per tanto tempo stigmatizzata da molti, ci insegna che la storia delle donne non coincide mai con la storia dei popoli.
D. Nel dopoguerra la donna comincia ad acquisire parità di trattamento. Con il raggiungimento delle pari opportunità la donna è più felice?
R. No! penso che con la parità dei diritti la donna, paradossalmente, sia diventata più infelice.
D. Puoi chiarire il perché?
R. Intanto dobbiamo chiederci qual è il nesso tra felicità ed emancipazione. Se la felicità dipende dal raggiungimento degli obiettivi che ognuno di noi si è posta, allora prima di rispondere dobbiamo chiederci quanto abbiamo sofferto il condizionamento del mondo reale, nella realizzazione di quei fini. Vivere libera, al di fuori cioè dai condizionamenti del mondo reale può diventare una trappola mortale, e per sottrarsi a questa trappola spesso noi donne siamo costrette a vivere una vita a metà. Se scegli di fare carriera devi rinunciare ad avere figli, se metti insieme carriera, figli e famiglia ti ritrovi una società contro, nel senso che non ti dà gli strumenti necessari alle tue esigenze come gli asili nido, la flessibilità nel lavoro ecc.
D. Dunque il femminismo ha fallito?
R. Assolutamente no! Diciamo che il movimento femminista che lottava per l’emancipazione della donna non ha valutato la deriva esistenzialista a cui sarebbe andata incontro la donna libera all’interno di una società ancora pensata e costruita tutta al maschile. Non ha capito che quel modello di società non le avrebbe dato gli strumenti necessari per esplicare le proprie competenze, le proprie potenzialità a poter scegliere senza essere condizionata.
D. Che rapporti hai avuto con il movimento femminista degli anni ’80?
R. Negli anni Ottanta avevo vent’anni e, come scrisse Francesco Merlo in un’inchiesta sui giovani catanesi impegnati politicamente, ero pronta per fare il dirigente del mio partito. Mi sentivo una donna emancipata dunque il mio rapporto con il movimento femminista lo consideravo costruttivo per la mia crescita, anche politica. Tuttavia, ben presto mi resi conto che lo slogan che imperversava negli anni ’70, il corpo è mio e me lo gestisco io cominciava ad essere manipolato. Il messaggio di quello slogan si riferiva al diritto della donna a procreare e si fondava sull’idea di un potere sessuale molto forte che aveva la donna. Tuttavia, quel messaggio cominciò ad essere interpretato nella sua estensione più totale, come diritto, cioè, a vandalizzare il proprio corpo in nome di una presunta emancipazione. Ecco, da quel momento cominciai a prendere le distanze anche dal movimento femminista del mio partito e, mi sembra di non sbagliare, nel dire che la donna di oggi ha stretto sempre di più il nodo esistente tra potere, sesso e violenza. Infatti, la cronaca ci racconta di storie di escort, di violenze domestiche che finiscono sempre in femminicidi. Il rapporto uomo donna è legato ancora una volta al corpo della donna e al suo sesso, esattamente il contrario di ciò che chiedeva il movimento delle donne che voleva abbattere le differenze sessuali e puntare sulle differenze di genere.
D. Qual è secondo te il parametro per misurare oggi il rapporto uomo-donna?
R. Il rapporto uomo-donna, oggi, non si misura più in ragione della forza tra due identità, ma attraverso il parametro della felicità. Voglio dire che le donne nate negli anni ’70 hanno ereditato il diritto alla contraccezione e ad essere pagate come gli uomini, ma non hanno ereditato quella visione politica che il movimento aveva, dunque, tutto si gioca a livello individuale, esponendoci al ricatto sessuale, ancora oggi nel terzo millennio.